Enormi cumuli di nuvole rotolavano minacciosi nel cielo plumbeo a cosí bassa quota da lacerarsi sfilacciandosi sulle cime aguzze degli abeti. Le fortissime raffiche di vento, trascinando turbini di foglie secche e neve, scuotevano paurosamente le gigantesche conifere intorno alla radura e, frustando con violenza inaudita le erbe palustri che la ricoprivano, creavano cosí un’illusione di onde in corsa su di un mare impazzito.
(20.000 B.C.)
-IL SAURO-
Per oltre 350 milioni di anni la sua “specie” aveva dominato il pianeta sopravvivendo ai millenni e alle molteplici ere glaciali. Il Sauro, perfettamente mimetizzato tra le alte canne, irrigidí i possenti muscoli delle zampe posteriori conscio della vicinanza del nemico. Nonostante il caotico frusciare creato dal vento nella vegetazione circostante, grazie al suo sensibilissimo udito, aveva intuito che il canide, cauto ma incalzante, aveva ulteriormente diminuito la distanza che li separava. Grossa mole e agilitá di quattro arti motrici combinati con fauci potenti e grossi denti potevano significare per lui, in un confronto diretto, una quasi sicura e forse non troppo veloce morte. A peggiorare ulteriormente le cose si erano aggiunti i tonfi goffi e pesanti che, materializzatisi tra i mille rumori giá esistenti, rivelavano senza ombra di dubbio la presenza di un primate. Quei grossi bipedi, cacciando coi loro servi quadrupedi, con strane e incomprensibili tecniche davano di norma ben poche possibilitá di scampo alle prede prescelte. Pietrificato nella sua posizione valutó la situazione con la serietà mortale che essa richiedeva.
IL CANIDE
La violenza delle raffiche oltre a rendergli difficile equilibrarsi gattonando in un quel terreno coperto d’acqua, gli complicava l’intercettazione dell’usta del sauro che peraltro, sicuramente consapevole della sua presenza, aveva gia piú volte cambiato direzione nella speranza di fargli perdere le tracce.
Adesso, dopo averlo pressato a quella che lui riteneva essere la giusta distanza, sentiva di averlo finalmente convinto a confidare nel mimetismo dell’immobilitá, consentendo cosí al suo lento compagno primate di raggiungere una posizione piú favorevole all’uso delle sue armi.
L’esperienza e il selettivo senso del suo naso gli dicevano che davanti a lui stava un grosso e vecchio maschio e rabbrividí al ricordo dei velocissimi colpi d’artiglio e di possente becco ricevuti nei furiosi incontri precedenti.
Di fianco a lui ma senza vederlo a causa dell’alta vegetazione palustre capi dall’interruzione dei passi che il primate, dopo aver superato la sua posizione, si era fermato.
Intuii l’incipiente battaglia finale e nell’ululato del vento si irrigidí definitivamente in attesa degli eventi.
IL PRIMATE
Solo la necessitá di procurare cibo alla tribú e la sua famiglia nell’incipiente inverno lo avevano spinto a sfidare le raffiche di pioggia e neve con cui oggi il dio adirato flagellava il mondo e i comuni mortali. Ritto sul capezzolo della sacra mammella di roccia che la Grande Madre aveva posto a sovrastare le cime delle erbe palustri nel centro dell’acquitrino, il primate, cauto e sospettoso, annusava il vento dilatando le grosse nari e, stringendo nervosamente la pesante lancia tra le mani, cercava di individuare il canide tra la vegetazione impazzita. Gli schianti degli alberi abbattuti, ricordandogli le storie terribili di morti e arti storpiati narrate dagli anziani intorno al fuoco, aumentarono le sue paure e con timore riverenziale pregó la Grande Madre di proteggerlo da quel furore che affliggeva la sua sortita di caccia.
(2000 p.C.)
IO
L’acqua gelida, superato il gambalino dello scarpone GORETEX, innondó con lentezza quasi sadica il suo interno. -Merda!- Annaspai in avanti impacciato dalla doppietta e dalle canne e riuscii finalmente a issarmi sulla grossa semisfera di granito a cui ero aggrappato. Giá di prima mattina, contemplando dalla finestra della baita il tempo infame che imperversava quel fine autunno lappone, avevo stabilito che solo un emerito cretino sarebbe uscito a caccia quel giorno, opinione peraltro pienamente confermata dal modo sbrigativo e schifato con cui il bracco adempiva ai suoi bisognini mattutini. -Neanche a dirlo! – esclamai ad alta voce uscendo dai miei cupi pensieri. -….Eccoci quí fracidi e intirizziti, io coi gli scarponi pieni d’acqua aggrappato ad un mammellone roccia nel mezzo di uno schifosissimo acquitrino e lui, sicuramente piú pesce che cane, da qualche parte di quel marasma impazzito di acqua e canne.-
L’ira per la perdita dell’ultimo cantuccio asciutto del mio corpo scemó rapidamente mentre, barcollando come un acrobata ubriaco cercavo disperatamente di non scivolare su litico simbolo sessuale che, come un’isola nel centro dell’acquitrino,spaziava sulle canne circostanti. Lacrimando per le raffiche di neve e pioggia, cercavo di individuare il manto bianco arancio del bracco nella vegetazione circostante e meditavo su cosa poteva essere cosí interessante a trasformarlo in una carpa a sguazzare in posti frequentati solamente da zanzare. Una ennesima raffica riuscí finalmente ad aprire le canne e a permettere a me di intravederne la sagoma; Lui, bracco italiano di nobilissime origini, immobile su tre zampe sprofondate nel fango dal peso degli alti lignaggi e dai suoi trentatre chili, indicava stoicamente con l’ultimo arto in dotazione dei grossi ciuffi di puzzolentissime erbe palustri poste ad alcuni metri dal mio fianco sinistro. Guardai rapidamente l’ambiente circostante al mio bellissimo cane e mi venne un terribile sospetto: -orrore!…. e se fossero renne?- Spesso accade che nelle giornate ventose trovino rifugio nelle radune per evitare il pericolo di alberi stroncati. Giurando mentalmente di sparargli (…drammatizzazione letteraria!) una botta sulle nobili e braccoidi natiche se tutto il successo fosse a merito di un volgare ruminante cornuto, volli dargli il beneficio del dubbio, e, tolta la sicura dell’arma, mi bilanciai per il tiro.
IL GALLO
Dei 350 miglioni di anni in cui la sua specie aveva dominato il pianeta e delle conseguenti ere glaciali a essi succeduti, se pur anche presenti come echi genetici nella sua memoria, in quel determinato momento non glie ne poteva fregare di meno. Rabbia e paura erano invece i sentimenti che primeggiavano sovrani nella mente dell’Urogallo. Sapeva perfettamente il modo di esimersi da quel tipo di pericolo anche perché conosceva i limiti degl’avversari, ma l’essere disturbato durante la sua colazione mattutina e, a digiuno, dover arrischiare un volo infradiciante tra le raffiche di pioggia e vento sovrastanti, non erano esattamente il modo con cui lui, signore indiscusso della foresta, aveva preventivato di incominciare la giornata …e il tutto per una dannatissima decisione sbagliata. I primi segnali dell’avvicinarsi di un intruso erano stati identificati da lui giustamente come appartenenti a un quadrupede e probabilmente un canide, per cui il suo conseguente defilamento in ambiente acquatico sapeva essere la soluzione migliore per far perdere le tracce al quel fottuto naso canino. Purtroppo peró, forse per decisione troppo frettolosa, non aveva distinto quelli, molto piú pericolosi, dei passi del fottutissimo bipede che l’accompagnava, togliendosi cosí la possibilitá di optare all’alternativa piú consona al caso: ”inbroccarsi” tra il folto gli alberi e, solo in un secondo tempo, abbandonare la zona con un silenzioso e invisibile volo. Volare scoperto in presenza di un umano era, nella sua memoria, collegato a quel cupo boato e al fischio rabbioso che, alcuni cicli fá, gli aveva morso le chiappe facendolo tuttora leggermente zoppicare. Le raffiche sopra di lui non accennavano a diminuire e consapevole che il trascorrere del tempo giocava a favore degl’incalzanti avversari, prese la decisione finale: raccolse le forze e saltó in verticale aprendo le possenti ali alla furia del vento.
IL BRACCO
Satollo di zuppa calda e acciambellato nella cuccia asciutta attendeva, stanco ma pago, che il ”sonno dei gusti” concludesse la sua giornata.
Nel dolce torpore che lentamente prendeva possesso del suo corpo sogno e realtà incominciavano a confondersi.
Nella sua mente intorpidita, alle strane modulazioni fischiate che il primate capo branco emmetteva tra gli scroscii della doccia incominciarono ad alternarsi, come vividi lampi, remoti ricordi . Il sentore di muschio del gallo bagnato tra le sue fauci mischiato al gusto putrido dell’acquitrino si alternarono visioni di giochi e di ombre su pareti di fumose caverne dove, intorno ai fuochi, ominidi gesticolanti fendevano l’aria raccontando alle femmine e ai cuccioli sazi di astuti attacchi e fughe sfrenate stroncate dai pesanti giavellotti. Accovacciati nell’entrata della caverna il branco di sciacalli che viveva in simbiosi con la tribú faceva la guardia ai pericoli della notte rosicchiando i resti e ossa bruciacchiate ricevuti dagli ominidi riconoscenti. Il frullo e lo sparo tra le canne dell’acquitrino si inserí tra i ricordi del suo inconscio paleolitico trasmettendo agli esausti arti motori incontrollati impulsi e scatti di azioni immaginarie e, mentre remoti odori di carni arrostite si mischiavano a quello pungente di un dopobarba, lentemente affondó nel buio del sonno.
Silvio Umberto Intiso